giovedì 28 agosto 2014

Equo compenso, streaming e download

Il mondo della musica continua ad anticipare le rivoluzioni nel nostro modo di vivere che una tecnologia sempre più potente e sempre più accessibile, che chiamiamo per semplicità "digitale" sta portando con se'.

Quello che affronto ora  qui, per un usuale punto della situazione, è il cambiamento in corso nella produzione dei contenuti e nel compenso per chi li produce, un cambiamento che probabilmente farà da apri pista al mondo della letteratura e forse del giornalismo.

Nell'era dei supporti fisici la gran parte dei compensi per tutti quelli che producevano musica, in qualsiasi ruolo, provenivano dalla vendita dei supporti, dischi, cassette o CD, in misura minore dalla diffusione via radio e in misura ancora minore dalla vendita di spartiti e dai concerti.

La vendita dei supporti è in calo costante e si ridurrà presto ad una nicchia di mercato, e lo stesso sta accadendo per la loro versione in digitale, il download. In crescita è invece la diffusione, ma in forme del tutto diverse, in prevalenza on demand. È il cosiddetto streaming. In sviluppo anche tutto il settore dei concerti, non più costosi e oberati da effetti speciali sempre più spettacolari e sostanzialmente promozionali (e in perdita) ma coperti dai profitti di LP e CD. Ora sono produzioni che puntano al profitto. Il problema è che la crescita in questi settori non bilancia il calo e non può garantire, almeno nelle previsioni a breve-medio termine, di recuperare il mancato fatturato derivante dall'ulteriore calo previsto nella vendita dei supporti.

I concerti
Sono passati, come accennato prima, da attività ad elevato costo non copribile dal costo dei biglietti (e in alcuni casi celebri anche gratuiti) quindi giustificate essenzialmente come promozione della vendita degli album, ad attività con un conto economico in positivo. Una delle principali fonti di reddito per molti musicisti che si impegnano a ritmi molto intensi, come Ben Harper con i suoi 200 e più concerti all'anno (fonte anche di ispirazione verifica della sua proposta grazie alla interazione continua con il pubblico). Una attività , come è evidente, non piratabile. Ma non alla portata di tutti.


Guadagnare con lo streaming
Se Spotify o Sony Music Unlimited o Deezer o Google Music Unlimited con circa 10 € al mese consentono di scegliere e ascoltare in buona qualità quasi tutta la musica del mondo, sobbarcandosi i costi dei server e delle connessioni, si suppone che non possano garantire grandi royalties per i detentori dei diritti delle musiche selezionate dagli utenti. Molti musicisti hanno accusato Spotify di lasciare profitti irrisori ai musicisti. Secondo analisi fatte dal sito AudioStream questo è vero solo in parte.
Per musicisti che riescono a generare numeri elevati in streaming e che gestiscono direttamente i loro diritti, come Ron Pope ritratto nella immagine iniziale, o il cantautore impegnato inglese Billy Bragg, i ricavi non sono disprezzabili, grazie alla vastità del pubblico contattabile sulla grande rete e ai servizi diffusi universalmente (come appunto Spotify). Diventano molto inferiori a quelli garantiti un tempo dai CD, quando il contratto che lega il musicista all'editore è sbilanciato verso questo canale rispetto alla diffusione, o per generi musicali a minore diffusione, quindi in primis per la classica e il jazz. Ma questo ultimo fatto avveniva già per le vendite di CD e quindi non c'è alcuna novità. In ogni caso il passaggio allo streaming assieme al forte incremento della produzione (e quindi della scelta per i consumatori di musica, consentita dalla continua diminuzione dei costi di produzione e dalla globalizzazione culturale) comporta un inevitabile calo dei guadagni per chi vive di musica, di qualsiasi fase del ciclo si occupi. Con le solite eccezioni.


Riduzione, non annullamento
Se tutti vogliono ascoltare musica quasi in ogni ora della giornata (e forse anche durante il sonno) non c'è dubbio che la domanda ci sia e sia consistente, e chi produce musica (una creazione non alla portata di tutti) è logico che sia remunerato. I sistemi che lo garantivano un tempo sono saltati ed è vano e velleitario il tentativo delle case discografiche, riunite nella IFPI, di mantenere la legislazione attuale sul copyright magari inasprendo le leggi, senza alcun aggiornamento alla situazione attuale nei canali di distribuzione e diffusione.

Pirateria ed equo compenso
La pirateria, ovvero il download illegale, muta continuamente e continua a resistere ai tentativi di debellarla. Avviato ormai sul viale del tramonto il peer-to-peer o P2P, il nuovo sistema è il cosiddetto "cyberlocking" (ci tornerò in un prossimo post). Per i discografici è la motivazione per richiedere leggi più severe o in sottordine, l'applicazione della "copy levy" - in italiano "equo compenso". Con le annesse tradizionali polemiche. Ingiustificate, perché è difficile sostenere che sulle memorie di massa esterne o interne di PC, tablet e smartphone non ci sia musica scaricata senza pagarla o copiata da altri, in almeno il 90% degli apparati diffusi in Italia. In più, l'equo compenso bilancia oramai gli introiti anche rispetto ad altri soggetti che, legalmente in questo caso, beneficiano della distribuzione legale o illegale di musica (o film) senza pagare nulla ai produttori del contenuti.  Sono i gestori di reti fissa e mobile.

L'obiezione ovvia è che l'equo compenso colpisce solo i produttori di HW e non i gestori TLC. Ma non è più così e lo sarà ancor meno in futuro in un mondo sempre più orientato alla tecnologia mobile, dove i gestori sono collegati a filo doppio con i produttori di apparati mobili. Che divideranno sicuramente l'equo compenso con gli sconti applicati ai gestori per la vendita di abbonamenti con apparato incluso.

Il caso YouTube
Oltre allo streaming in abbonamento, esiste anche lo streaming con pubblicità. La stessa distinzione che conosciamo per la TV tra i servizi premium come Sky o Mediaset Premium e quelli cosiddetti in chiaro. Una opzione anche per Spotify, ma il servizio di questo tipo che tutti conoscono ed usano continuamente è ovviamente YouTube. In questo caso i guadagni dei detentori dei diritti musicali sono unicamente una percentuale delle tariffe pubblicitarie riscosse da Google / YouTube, nel caso in cui gli annunci siano inseriti in video accompagnati da contenuti musicali sotto copyright. Ho trattato a suo tempo il modello di business di YouTube per gli inserzionisti e per i creatori di contenuti in questo articolo a cui rinvio per approfondimenti.

Appare evidente che essendo una frazione della frazione quello che rimane al musicista in questo caso sarà apprezzabile solo per grandi volumi, che però su YouTube sono anche possibili.
Una preoccupazione speciale è riservata invece all'annunciato servizio in abbonamento senza pubblicità che YouTube sta lanciando. Qui secondo le anticipazioni Google grazie alla forza dei numeri sta imponendo percentuali molto basse per i detentori dei diritti musicali e in particolare per le etichette indipendenti (la fonte è sempre AudioStream). Ma come sempre bisognerà vedere come andrà veramente e se poi YouTube a pagamento avrà un vero peso commerciale.

In sintesi
Chi produce musica e vuole vivere di musica non può fare altro che adattarsi al mondo attuale e cercare di piegarlo a proprio favore. Compensare con i concerti e con le attività collaterali il calo di fatturato ( e la progressione sparizione) dei ricavi da supporti fisici. Diventare popolare sul web o attraverso altri canali (TV in primis) per generare streaming (o trovare buoni sponsor se è un musicista classico) e sostenere e cercare di rendere effettivamente equo per sé (ma non vessatorio per gli utenti) l'equo compenso. I servizi in abbonamento sono destinati a crescere sia come numero di abbonati sia come spesa per abbonato come già avviene nella TV, e quindi è prevedibile che anche la "torta" per i musicisti sarà più ricca. Ma dovrà essere divisa tra un numero di produttori di contenuti sempre più grande.

(nelle immagini i musicisti citati: Ron Pope, Ben Harper e Billy Bragg)